martedì 25 dicembre 2007

"Scanner Darkly" di Richard Linklater

Scanner Darkly - Un oscuro scrutare è un film di Richard Linklater del 2006, tratto dal romanzo Un oscuro scrutare di Philip K. Dick.

A Scanner Darkly è probabilmente uno dei romanzi sulla droga più belli mai scritti[citazione necessaria] e certamente uno dei massimi capolavori dello scrittore californiano. Molto forte è la componente autobiografica, perché anche P.K. Dick aveva problemi di tossicodipendenza. Il regista Richard Linklater ha insistito per essere il più fedele possibile al romanzo, finale compreso, anche se, come al solito, il libro riesce ad approfondre meglio le varie tematiche. Il regista ha mantenuto anche il mix di humour e tragicità presente nella versione cartacea, che però nel film ha anche l'effetto straniante d'indecisione sulla strada da prendere.

A Scanner Darkly è uscito nelle sale americane il 28 luglio 2006. Il film è stato presentato al Cannes Film Festival 2006, al Seattle International Film Festival 2006 e nella sezione Extra alla Festa del Cinema di Roma 2006. È uscito nelle sale italiane il 20 ottobre 2006.
Il film ha inoltre ricevuto una nomination al Premio Hugo 2007 per il miglior film drammatico.

Linklater ripropone la stessa sperimentazione estetica del suo film Waking life (USA, 2001), usata ancor prima nella versione animata de Il Signore degli Anelli (1978) di Ralph Bakshi, girando in normale live action per poi ritoccare con animazione grafica digitale (in un processo conosciuto come Interpolated rotoscoping) per un totale di 18 mesi di post-produzione.

Il procedimento tecnico aiuta a costruire e creare il mondo completamente alienante del protagonista e dei suoi amici tossicodipendenti e a meglio descrivere la stratificazione d'identità di Bob/Frank. Il fatto che il lungometraggio sia una via di mezzo tra un film con attori in carne ed ossa ed un cartone animato aiuta enormemente a creare nello spettatore uno stato confusionale, cercando di simulare gli effetti psicotropi della droga.




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domenica 28 ottobre 2007

"Radiofreccia" di Luciano Ligabue




film diretto da Luciano Ligabue, girato nel 1998 e prodotto da Domenico Procacci.
L'opera, ispirata ad alcuni racconti del primo libro pubblicato da Ligabue (la raccolta Fuori e dentro il Borgo), ottiene un successo inaspettato: il film, infatti, riceve ben tre David di Donatello, due Nastri d'argento e tre Ciak d'oro.

TRAMA
Nel 1993 Bruno, ideatore e unico deejay di Radio Raptus, rievoca, due ore prima della definitiva chiusura dell'emittente, la storia di Radiofreccia, aperta a Correggio nel 1975 con un trasmettitore di 5 watt e dischi portati dagli amici.

CURIOSITA'
Malgrado la storia narrata nel film si svolga quasi esclusivamente a Correggio, le carrellate sulla cittadina che si possono vedere nei titoli di testa sono state girate in un'altra località della provincia reggiana, ovvero Gualtieri. Altre location riconoscibili sono il ponte di barche di Torre d'Oglio e il ponte ferroviario sul torrente Crostolo, fra Guastalla e Gualtieri.

Luciano Ligabue compare in questo film per una brevissima scena, quella in cui i ragazzi vanno a spiare uno studio radiofonico per comprendere cosa puo' servire loro per allestire una stazione radio analoga. Il regista ricopre il ruolo di speaker radiofonico.



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lunedì 27 agosto 2007

"C'era una volta in america" di Sergio Leone



C'era una volta in America è l'ultimo film diretto dal regista italiano Sergio Leone. Fa parte della cosiddetta "trilogia del tempo". Di questa trilogia fanno parte anche i film precedenti del cineasta romano: gli spaghetti western C'era una volta il west e Giù la testa.

Girato nel 1984, sedici anni dopo C'era una volta il West, il film è interpretato, fra gli altri, da Robert De Niro e James Woods. La colonna sonora è di Ennio Morricone.

Basata su un romanzo di Harry Gray, The Hoods, pubblicato poi successivamente con il titolo di Once Upon a Time in America, la pellicola narra - nell'arco di quarant'anni, dagli anni '30 ai '60 - le drammatiche avventure di Noodles, gangster dedito all'oppio, e del suo amico Maximilian "Max" Bercovicz - interpretato da James Woods - dal ghetto ebraico all'ambiente della malavita organizzata nella New York del proibizionismo e del post-proibizionismo.

Articolato su un ampio ricorso alla formula del flashback, che lascia tuttavia spazio ad un finale aperto, il film ha avuto una gestazione complicata: fu dapprima distribuito negli USA in una versione ridotta con tagli per circa novanta minuti. Tale versione non prevedeva la struttura a flashback, e articolava le scene in ordine strettamente cronologico. Questo "arrangiamento" riduceva il capolavoro di Leone ad un banale gangster-movie che si rivelò un flop negli states mentre la versione del regista fu un grande successo di pubblico e critica in ogni altra parte del mondo.

L'alto significato allegorico, la perfezione tecnica, l'atmosfera che avvolge lo svolgersi della storia rendono unico il film, da molti considerato uno dei più belli di tutti i tempi.



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domenica 26 agosto 2007

"The Elephant Man" di David Lynch

The Elephant Man è un film biografico del 1980 diretto da David Lynch che racconta la storia del più noto storpio inglese dell'ottocento, Joseph Merrick.

L'allora trentaquattrenne Lynch realizza un'opera di grande poesia, capace di incantare gli spettatori e portarli alle lacrime grazie ad una regia controllata anche se non priva di tocchi personali e ad una messa in scena dell'Inghilterra Vittoriana di grande effetto. È difficile prevedere in quale direzione il film vuole portarci man mano che la pellicola scorre, e nonostante qualche eccesso di sentimentalismo sia comunque presente non si può negare la capacità di Lynch nel trattare un materiale che avrebbe potuto dar vita a ben altre stucchevoli esperienze filmiche.

Gli interpreti principali sono Anthony Hopkins, John Hurt, Anne Bancroft, John Gielgud, Wendy Hiller, Michael Elphick, Hannah Gordon e Freddie Jones. Il film è stato adattato da Christopher De Vore, Eric Bergren e David Lynch dal libro The Elephant Man: A Study in Human Dignity di Sir Frederick Treves e Ashley Montagu. Per motivi artistici fu girato in bianco e nero.

Ricevette 8 nomination per il premio Oscar, come Miglior Film, Miglior Attore (John Hurt), Miglior Scenografia, Migliori Costumi, Miglior Regista (David Lynch), Miglior Montaggio, Miglior Colonna Sonora, Miglior Sceneggiatura basata su un romanzo. Nonostante le attese, il film non si aggiudicò nessuno di questi premi.

Vinse invece il premio della British Academy of Film and Television Arts come Miglior Film, Attore (John Hurt) e Scenografia, e fu nominato per altri quattro: Regia, Sceneggiatura, Fotografia e Montaggio.



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sabato 25 agosto 2007

"Urla del silezio" di Roland Joffé

Durante la guerra di Cambogia il giornalista del New York Times Sydney Schanberg (Waterston), spedito sui “Killing Fields” (questo il titolo originale) come inviato speciale, costruisce una salda e onesta amicizia con il rappresentante locale Dith Pran (Ngor). Al momento della ritirata statunitense Pran decide di restare al fianco del suo amico Shanberg per continuare il reportage sugli eventi locali, nonostante l’avanzata degli Khmer Rossi lo minacci più del suo compagno statunitense.
Roland Joffré dipinge con un affresco violento e caotico la prima grande sconfitta bellica contemporanea subita dagli Stati Uniti da un punto di vista prettamente umano. Le vite dei personaggi si intrecciano e confondono con il marasma della guerra e delle condizioni di vita estreme del sud-est asiatico, e il regista propone uno sguardo appassionato sul contraddittorio mondo del giornalismo americano, che risulta ancora fortemente attuale.
La pellicola, emozionante e coinvolgente grazie alla profondità dei personaggi e la bravura degli interpreti, è girata con maestria. Il film colpisce anche per la notevole fotografia e per le indimenticabili immagini delle città Cambogiane devastate dal caos.

"Leon" di Luc Besson



Leon è un sicario, felice della sua vita. Quando una ragazzina sua vicina, torna a casa e trova la sua famiglia uccisa da un trafficante di droga, va da lui per aiuto. Quando scopre la sua "professione", gli chiede di insegnarle ad uccidere per ottenere la sua vendetta.



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"Monster man" di Michael Davis



Goliardico film statunitense del 2003 che s'inserisce nel rinato filone dell'horror rurale a cui a fatto da apripista “Jeepers Creepers ” di Victor Salva. E proprio a quest'ultimo, “Monster Man” si rifà chiaramente, sia nell'uso delle locations che per la figura del folle assassino motorizzato. Una coppia di ragazzi piuttosto scemi è in viaggio lungo le assolate strade del profondo sud degli States, verso un matrimonio a cui sono stati invitati. Ma i giovani ben presto si troveranno, loro malgrado, braccati da un pazzo che viaggia su un terrificante “monster truck” (ossia una sorta di enorme jeep, con ruote spropositate, che gli americani adorano realmente vedere in azione in alcuni show itineranti, mentre schiaccia automobili e compie acrobazie). Durante la fuga, i nostri ne passeranno di tutti i colori, incontreranno anche una sexy autostoppista ed infine scopriranno che i loro inseguitore non è esattamente un essere umano… Divertente e ritmato, “Monster Man” risulta più spensierato e godibile di altri prodotti del medesimo filone (vedi, ad esempio, “Wrong Turn ”) e , nonostante abbia alcune pecche di sceneggiatura evidenti, coglie appieno gli obbiettivi che si era prefisso ossia inorridire e far ridere al contempo. Ottimi gli effetti speciali che non lesinano in esplosioni brutali di splatter, specie nel concitato finale (evidente omaggio a “Non aprite quella porta ”) ed efficace il trucco di “Bob”, il folle e mostruoso inseguitore dei ragazzi. Ben realizzato anche il rugginoso e mastodontico “monster truck”. La regia di Davis è briosa e resta in bilico fra azione spettacolare, parodia ed horror truculento. Dignitoso il reparto recitativo (la giovane Aimee Brooks è una vera bomba sexy!) e azzeccate le desolate locations. Ottimo per una serata carica di pop-corn e birra !



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"Memento" di Christopher Nolan



Leonard Shelby tentando di salvare la moglie da due malviventi rimane gravemente ferito alla testa, tale trauma gli causa l'impossibilità di accumulare nuovi ricordi. Dal momento dell'incidente, che resta anche l'ultimo ricordo fissato nella sua memoria, l'unico scopo nella sua vita è trovare e punire l'uomo che ha violentato e ucciso sua moglie. Determinato e consapevole del suo problema, prende appunti e fotografa con la Polaroid tutto quello che gli può essere utile e che dimenticherà dopo pochi minuti. Il suo corpo è pieno di tatuaggi sui quali appunta gli avvenimenti e i dati più importanti nella ricerca del colpevole.

Il montaggio del film procede su 2 binari: le scene che si susseguono sono alternativamente l'ultima in ordine cronologico, poi la prima, poi la penultima, poi la seconda, e così via. La scena finale del film è quindi quella cronologicamente centrale, che rappresenta il punto di scioglimento dell'intreccio. La tecnica replica il punto di vista del protagonista, che, afflitto di mancanza di memoria a breve termine, dimentica tutto ciò ha vissuto nell'immediata precedenza. Lo spettatore, vedendo eventi di cui ancora non ha visto ciò che li precedono, si trova nella stessa condizione di spaesamento. Ma al di la della trama il film è incentrato sulla necessità umana di ancorare la vita ad una successione temporale di eventi. Nel momento in cui ciò non è possibile, essa stessa diventa qualcosa di non gestibile. Il protagonista non sa neppure quanto tempo è passato dall'incidente e ogni volta che si risveglia scopre di nuovo tutto da capo, così come dopo pochi minuti non ricorda assolutamente ciò che stava facendo. Ciononostante, la necessita di avere uno scopo è così forte da spingerlo a continuare a vivere grazie "all'istinto , all'urto e al metodo"



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"Assassini nati" o "Natural Born Killers" di Oliver Stone



Assassini nati è un film del 1994 diretto dal regista premio Oscar Oliver Stone, con Juliette Lewis e Woody Harrelson.

La sceneggiatura originaria del film venne scritta da Quentin Tarantino, ma modificata radicalmente da Oliver Stone, Richard Rutowski e David Veloz, al punto che Tarantino decise di prenderne le distanze pubblicamente e chiese addirittura di togliere il suo nome dai titoli.

Nelle intenzioni di Tarantino il film avrebbe dovuto mescolare violenza a dialoghi brillanti secondo una trama complessa e ricca di riferimenti all'avantpop, un po' sulla falsariga di quanto proposto con i suoi Le Iene e Pulp Fiction. Stone invece preferì incentrare l'oggetto del film tutto sul rapporto tra i media e la violenza che si alimentano vicendevolmente secondo un meccanismo perverso.

Il film fu criticato da parte della stampa e dell'opinione pubblica a causa del contenuto esplicito di violenza che avrebbe lasciato in secondo piano il messaggio di forte critica della stessa, che pure è evidente nelle intenzioni dell'autore.



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"Chinatown" di Roman Polanski

La pellicola è evidentemente un omaggio al giallo hard boiled, specialmente a quello californiano di Raymond Chandler. Non è infatti difficile vedere come i personaggi del film corrispondano a quelli tipici del genere: c'è il detective ex-poliziotto cinico e disincantato, ma in fondo idealista (Gittes), la dark lady ambigua e sensuale (Evelyn), il potente patriarca con lo scheletro (o gli scheletri) nell'armadio (Noah Cross), la polizia corrotta e politicamente controllata, i quartieri etnici (Chinatown, che a ben vedere è un microcosmo che riflette la corruzione dell'intera Los Angeles). C'è anche, nel romanzo di Robert Towne, quell'intreccio di storia e invenzione che diverrà poi plateale nei successivi romanzi di James Ellroy: la torbida vicenda di appalti, speculazioni edilizie, corruzione e delitto raccontata da Polanski è infatti in gran parte basata sulla vera storia della città di Los Angeles, e delle colossali opere idriche realizzate da William Mulholland per rendere abitabile quella che in origine era un'area semidesertica.



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domenica 1 aprile 2007

"La finestra sul cortile" di Alfred Hitchcock

La finestra sul cortile è un film del 1954 (prima proiezione: 4 agosto) del grande regista del thriller Alfred Hitchcock, tratto dall'omonimo racconto di Cornell Woolrich. Ben prima delle candid camera o dei cosiddetti reality show (spettacoli televisivi in cui una telecamera spia, di nascosto o meno, la vita delle persone), esplorò con questo intenso giallo fin dove una persona può spingersi nello spiare i propri vicini.

François Truffaut lo definì "un film sul cinema" per il facile paragone tra le finestre e lo schermo cinematografico. Il protagonista, come lo spettatore al cinema, si trova in una condizione di scarsa mobilità e sovrapercezione. Le finestre possono essere paragonate anche al palcoscenico di un teatro, in cui la tenda funge da sipario che dovrebbe impedirci di vedere ciò che non deve essere reso pubblico.



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venerdì 5 gennaio 2007

"Il popolo migratore" di Jacques Perrin






Il popolo migratore
Chiudere gli occhi e pensare di volare: sensazioni sconosciute, brama di libertà, queste sono le prime cose che ci vengono in mente. Questo é ciò che si prova guardando questo magnifico documentario, frutto di quattro anni di lavoro meticoloso che ha usato tecnologie all'avanguardia e tecnici altamente specializzati. Dall'alto tutti i colori della terra sono esaltati, c'é un'esplosione di verde e giallo, di rosso e marrone. Chiazze di cielo che si rispecchiano in acque cristalline, spuma del mare, tundra, deserto, grandi distese artiche ghiacciate, montagne bianche, canyon roventi, boschi autunnali variopinti, e poi loro, i protagonisti, gli uccelli migratori. Si invidiano quasi le oche selvatiche, le gru, i cigni, le aquile i pinguini e tutti gli altri che possono godere di queste grandiose vedute, di tali spettacoli della natura. Il filmato ci permette di volare con loro, di avere la loro stessa visuale, quasi di sentire, come loro, il vento colpirci la faccia. Sono tutti uccelli che ogni anno affrontano migliaia di chilometri per raggiungere zone calde e riprodursi, e che poi ritornano nei luoghi di partenza. Tutto questo con la sola forza delle loro ali e con il loro istinto, con la guida del sole e delle stelle. Il filmato inizia in autunno nell'emisfero australe per seguire il viaggio, lungo un intero anno, che porterà tutte queste specie di uccelli nell'emisfero boreale, dove si riprodurranno e istruiranno i piccoli per affrontare il duro viaggio di ritorno. Il più delle volte il viaggio é pericoloso, stancante, lunghissimo. Non tutti giungeranno a destinazione, molti periranno lungo la traversata, stremati dalla stanchezza, dal freddo, dalla fame. Eppure la sensazione che si ha non é assolutamente negativa: é bello veder volare tutti questi uccelli in stormi, vederli avvicendarsi alla guida del gruppo, vederli spiegare le ali e sfruttare la forza del vento. Quegli stessi uccelli che spesso ci sembrano goffi acquistano una leggiadria, un'eleganza, una maestosità insospettate. Il loro elemento é l'aria, nessuno può obiettarlo. Lo sforzo di battere le ali, le tecniche per procurasi cibo, i pericoli che devono affrontare, sono tutte pratiche che il regista riprende sapientemente e che lo spettatore percepisce come uno dei tanti meravigliosi aspetti della vita. Si stringe il cuore nel vedere le oche domestiche rinchiuse in un recinto che guardano con nostalgia e forse con un pò di rammarico le loro cugine selvatiche librarsi libere nel cielo, ci si meraviglia nel prendere atto dei tanti rituali di accoppiamento esistenti in natura, dei loro misteriosi significati. E poi, insieme al miracolo della primavera eccoli, i piccoli. Escono dai gusci implumi, impauriti, sornioni. Dovranno imparare presto a procurarsi il cibo, a sbrigarsela da soli e soprattutto a volare. Le musiche ben sottolineano tutti i passaggi, esaltano le scene, contribuiscono quasi ad enfatizzare il rumore del vento, lo sciacquio del mare, i fischi delle bufere.
Le sensazioni regalate da "Il popolo migratore" sono forti, difficili da sopire, difficili da far conciliare con la routine quotidiana. Eppure sono emozioni che servono e che spesso sono soffocate da inutili pratiche messe a punto per inibire l'istinto di libertà che alberga in ogni uomo. È stano andare al cinema per vedere un documentario, ma di questi tempi è ancora più inusuale vedere un bel film, quindi...

giovedì 4 gennaio 2007

" Nuovo Cinema Paradiso" di Giuseppe Tornatore



Senza paura di esagerare è uno dei film per cui il cinema italiano è più conosciuto nel mondo.
La storia si dipana nell'arco di tre decenni, il piccolo Totò (Salvatore Cascio), orfano di guerra, è un assiduo frequentatore del piccolo cinema di Giancaldo, paesino dell'arida provincia siciliana nell'immediato dopoguerra. Oltre alla sua continua presenza come spettatore, Totò pratica con le sue continue incursioni la cabina di proiezione dove l'anziano operatore, Alfredo (Philippe Noiret), lo inizia ai misteri della pellicola.
Durante uno spaventoso incendio che distrugge il cinema il bambino salva la vita di Alfredo, che però per le ustioni riportate rimane sfigurato e cieco. Totò diventa quindi il nuovo proiezionista, negli anni che passano si perfeziona la simbiosi fra i due, Alfredo finisce per fargli da padre, mentre lui farà le veci dei suoi occhi.
Salvatore è cresciuto (ha ora il volto di Marco Leonardi), è un adolescente sensibile quando all'improvviso appare nella sua vita Elena, figlia del nuovo direttore di banca, entrata per caso nell'obiettivo della sua cinepresa al suo arrivo a Giancaldo. Salvatore tenacemente conquista la ragazza con la sua gentilezza e la sua determinazione, rimane per mesi ogni notte sotto la sua finestra ma il destino, nelle sembianze del padre di lei che per la figlia ha altri progetti, li separa.
Dopo un terribile anno di militare, Salvatore disperato lascia il paese, sale su un treno che lo porterà a Roma. Alla stazione lo salutano sua madre, sua sorella e Alfredo, che all'ultimo istante gli strappa la promessa di non voltarsi indietro e di non tornare mai più. Trent'anni dopo, in una notte insonne, immediatamente prima di tornare in paese per partecipare al funerale di Alfredo, Salvatore ormai adulto e regista affermato ripercorre a colpi di manovella tutta la sua vita fra film famosi, rivivendo i commenti e la commozione del pubblico, riascoltando la campanella con cui il parroco-censore indicava ad Alfredo le scene “peccaminose” (baci) da tagliare.
Uscito nel 1988 e in un primo tempo passato quasi inosservato nelle sale, fu poi sottoposto a un coraggioso intervento “chirurgico” da parte del regista Giuseppe Tornatore, che gli amputò una buona mezz'ora (e che a un certo punto gli attribuì addirittura un titolo diverso, “Baci rubati”) e sacrificò del tutto il personaggio interpretato da Brigitte Fossey, Elena adulta, riuscendo comunque, con insistenza e volontà, ad imporlo all'attenzione degli addetti ai lavori. Detto fatto, Nuovo Cinema Paradiso fu presentato a Cannes l'anno successivo, ottenendo la Palma d'Oro, e fu infine candidato agli Oscar 1990 vincendo il titolo come Miglior Film Straniero.
Così nasce un mito mondiale. Sebbene fortemente osteggiato dalla critica, ancor oggi, nei punti più lontani del globo, la storia di Elena e Salvatore, il bacio casto e inesperto di due adolescenti nella cabina del cinema fra spezzoni di pellicole appesi ai muri rimane indelebile nella nostra memoria. Il film fa leva su emozioni comuni: lo sguardo scuro e penetrante di un bambino follemente innamorato del cinema; l'amicizia fra lui e Alfredo; la scoperta dell'amore e del dolore; il ricordo e il rimpianto del protagonista. Sentimenti semplici ma profondi, seppure con qualche inevitabile ingenuità giovanile (sono ancora lontani per Tornatore i tempi de La Leggenda del Pianista sull'Oceano), ancora ci toccano e ci intristiscono, poichè l'amore sfiorato e mai appagato è un fantasma, compare e sparisce etereo come l'esile e diafana effigie di una giovanissima Agnese Nano dagli enormi occhi blu che lì lo personificava.
Un'occasione colta in pieno, fra sequenze storiche di film anni '50 e '60, Kirk Douglas-Ulisse che eroeggia fra le onde, Vittorio Gassman senza una ruga che osa dare un bacio sulla spalla di Silvana Mangano, la primissima Brigitte Bardot le cui forme facevano sognare irraggiungibili paradisi del desiderio. In breve, nostalgia, questa la parola d'ordine per commuovere, complice la colonna sonora, una delle pagine musicali più memorabili ad opera di un ispiratissimo Ennio Morricone (con l'ausilio del figlio Andrea), che anche da sola dipinge la struggente e dolcissima malinconia che pervade l'intero film.
Se colpisce la varietà di figure di cui si popola la storia, è tuttavia evidente la continua contrapposizione di due fronti di personaggi: da un lato quelli fittizi, che si vedono agire e scorrere sullo schermo, quasi pretesti, puri simboli, forse per questo solo abbozzati e carenti di autentico spessore. In realtà i veri protagonisti del film sono due: il cinema e il regista Tornatore, e la vera trama è la storia d'amore fra il regista e il cinema.
Trait d'union fra un gruppo e l'altro è Alfredo, che anche da cieco riesce a “vedere” quando la proiezione è sfocata, che ricorda a memoria le battute dei film, riconosce al tatto l'inizio e la fine di una pellicola. Personaggio perfettamente compiuto, è anche colui che nella vicenda più di tutti comprende il talento e le potenzialità di Salvatore, e che nella chiusa gli fa l'ultimo grande regalo: una “pizza” con le scene amorose dei baci tagliati a tante pellicole in tanti anni di lavoro al Paradiso. E che rende questa sequenza finale il reale cuore pulsante di Nuovo Cinema Paradiso.
Se dovessimo aggiungere una considerazione conclusiva, potremmo affermare che Nuovo Cinema Paradiso è uscito in un momento in cui il cinema italiano aveva bisogno di storie come questa, forse perchè troppo saturo di commedie dall'umorismo pecoreccio e volgare, anche se in tempi recenti il duo Boldi-De Sica è stato rivalutato da una certa parte della cosiddetta critica seria. Pur senza l'iniziale successo al box office ed il plauso del pubblico, l'opera di Tornatore ha nobilitato il nostro cinema che sino a quel momento aveva visto troppe sceneggiature di valore finire nel cestino oppure costretto molti cineasti a cercare miglior fortuna oltre oceano. Ed i trionfi di Salvatores e ancora delle nuove pellicole di Tornatore hanno dimostrato che questa era la via da battere da parte dei nostri sin troppo prudenti produttori.



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"Carlito's Way" di Brian De Palma



I grandi pregi del film sono due. In una sfida rara, De Palma riesce a presentare un personaggio drammatico, fatale, coinvolgente, remoto, che non pretende dagli spettatori complicità nè avversione: neppure per un attimo si sta con lui nè contro di lui. Con una maestria cinematografica straordinaria, il regista sa raccontare per immagini non soltanto la ferocia della violenza assassina, ma anche certe cattedrali del divertimento contemporaneo: locali di esibizione di nudo femminile, locali notturni splendenti di luci acide, di lusso volgare e di soldi malguadagnati, sale da ballo risonanti di musica latina, affollate di ballerini fatti e di ragazze bellissime.



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